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1. Nuove povertà e qualità del servizio

2. Gli empori sociali e il sistema a punti

3. Risposte mancate alla crisi: sfruttare le potenzialità di tempo ed energie

4. Servizi di Reggio, potenzialità e criticità.
-Le mense e la questione del mangiare
-L’accoglienza invernale
-Le particolarità delle donne

5. Il volontariato

(…) E’ lo stesso problema dei nostri sportelli, quello di non accontentarsi di chi arriva, perché ha già fatto un grosso passo, è già arrivato ad una condizione più che disperata, e sicuramente non ha le possibilità di arrivare; invece di essere propensi e attenti a chi non arriva ma magari è in altrettanta difficoltà. Le categorie che qui si possono individuare sono tante. Su questo però secondo me un passo previo, che abbiamo visto nei servizi, è di andare a verificare le attuali prese in carico, se sono tutte quante da mantenere in carico.

“Cioè una mappatura degli incarichi?”

Anche proprio come filosofia di intervento. Faccio l’esempio dell’indebitamento economico e finanziario delle famiglie e tutto il discorso successivo di maggiore educazione al risparmio. La crisi ha fatto venire al pettine tanti nodi di famiglie mediamente benestanti, ceto medio basso ma in cui comunque entrambi lavorano, smettono di lavorare, cassa integrazione, vengono a nudo i problemi di indebitamento. Macchina, tv, affitto, mutuo… tutte rate che si accumulano e la crisi, mettendo in difficoltà il reddito famigliare, fa fare poi delle scelte.
Abbiamo poi visto la sfrontatezza di tutto il sistema finanziario ufficiale e non, dalle banche fino ai prestatori. Tra gli immigrati ci sono molti prestiti tra amici, non è usura ma non ci saltano più fuori. Il sistema finanziario ufficiale arriva prima a chiederti conto se non paghi che non il proprietario se non paghi l’affitto o Enìa per la bolletta. Questi vengono magari con strategie intimidatorie, assolutamente legali, che ti spingono a pagare la finanziaria e smetti di pagare l’affitto, senza pensare che la conseguenza è peggiore se perdi la casa, piuttosto che andare anche in una sorta di atto legale però per un prestito e non è una casa.
Per i servizi, dicevo, la filosofia che ci sta sotto, magari in tempo di grassa per tutti, il problema “non ho abbastanza reddito, mi paghi la retta dell’asilo, mi dai il buono affitto, mi dai il buono spesa” era erogato a fronte di situazioni in cui non c’era una gestione del reddito intelligente o parsimoniosa. Quindi continui per anni a pagare questi contributi pubblici – che vengono tolti da altri – per situazioni che, spesso all’insaputa cosciente, ma spesso anche in modo consapevole e approfittatore di famiglie e persone che dicono “se il comune paga lì io posso permettermi altro.” Noi abbiamo visto che non è facile far capire questa cosa ai servizi, il fatto di fare un passo, una domanda in più, approfondire la situazione. È più facile a problema ho una risposta, si o no, se ci sono i fondi si, altrimenti no.

“Infatti anche loro, gli utenti, hanno assimilato questo meccanismo. Il servizio sociale non è diventato altro che quell’ente che ti eroga soldi quando ne hai bisogno. Non si rivolgono ai servizi per altro, manca tutta la parte di ascolto che invece ai centri d’ascolto viene fatta e che è importante, perché basta avere davanti qualcuno che ti ascolta e si interessa a te, darti qualche indicazione. I servizi hanno smesso di farlo e basano tutto sui fondi.”

È un discorso di qualità. Non è facile andare in profondità con la persona o la famiglia che hai davanti, rispetto alla sua storia. Magari dai (o non dai) la risposta a livello meramente economico ma non dai un vero ascolto. Questa è questione di qualità proprio. Qualità vuol dire metterci un maggior tempo, maggiori energie. Di fondo ci potrebbe stare una formazione diversa per l’operatore sociale. Sono convinto che ascolti di più, e conosca meglio le problematiche della famiglia, l’operatore della casa di riposo che non l’assistente sociale, non per malvagità, ma perché hanno 500 casi per uno e riunioni da fare e tutto il resto. Oggi però se si dice che dopo la crisi economica e finanziaria anche la produzione industriale se ne esce con più qualità – oltre che con globalizzazione, mondialità – però anche con la qualità, secondo me anche i lavori sociali devono puntare un po’ sulla qualità, anche se all’inizio è meno redditizio.

È nato anche un tavolo con il Comune di Reggio Emilia in cui stiamo condividendo alcune riflessioni sull’indebitamento. È evidentissimo: vengono fuori situazioni in cui la famiglia o uno della famiglia ha ricevuto sussidi per anni e magari quelli sono anni in cui hanno accumulato debiti fino a 40, 50, 60 mila euro in modi assolutamente diversi. Non è quindi un problema solo del servizio sociale: è un problema di cultura e di educazione del cittadino e qui rimanderebbe a tante altre cose, dalla pubblicità in giù, che non sono neanche in nostro potere. Tutto ci spinge – anche in anni di crisi – a prendere, a consumare, a cambiare, a indebitarti…

“Volevo chiederti rispetto a questo, l’esperienza che è attiva a Parma e inaugurano a Modena dell’Emporio Sociale. È un emporio nel quale i prodotti hanno un punteggio, aperto a tutta la città, gestito da varie associazioni di volontariato. L’accesso è gestito dai servizi sociali – e questo è interessante perché chi gestisce l’emporio non si occupa anche dell’ammissione al centro stesso. Per cui i Servizi ricevono la richiesta del cittadino che è in condizioni di vulnerabilità che ha poi accesso al servizio per massimo 2 anni. Il punteggio è legato alle ore di volontariato che la persona in difficoltà presta in cambio di un punteggio per acquistare i prodotti. Come vedresti questo tipo di servizio a Reggio? La perplessità che abbiamo è la mancanza totale di ascolto. Potenzialmente ogni persona indigente può accedere a questo servizio, senza tutta la parte di monitorizzazione che è fatta solo dagli assistenti sociali; tuttavia immaginiamo che questa possa diventare la risposta automatica dei servizi sociali che non sanno come affrontare alcuni casi di indigenza e sanno che per due anni questi possono accedere all’Emporio. Che tipo di filtro potrebbe esserci? E per tutta la parte di ascolto che è prevalente alla Caritas? Esistono varie realtà che distribuiscono cibo a Reggio ma non sono coordinate, è stata pensata una cosa del genere? Il pregio di un’attività del genere è che punta molto sul marketing, sull’estetica, e può coinvolgere anche famiglie italiane, che magari faticano a rivolgersi ad un Centro d’Ascolto parrocchiali e avrebbero invece meno problemi ad andare in un posto che si presenta anche esteticamente come un supermercato normale.”

Gli empori sono nati forse più che altro dal mondo Caritas, i primi sono stati a Prato, Toscana, Roma, e poi via via altri, di solito da Caritas, quindi li conosciamo come filosofia e come modalità. Quello di Parma è nato in modo diverso, la Caritas ci è entrata dopo. Loro hanno fatto il percorso inverso: si sono accorti, con l’accesso degli utenti all’emporio, che mancava una parte di ascolto, quindi hanno messo a fianco uno sportello dedicato a quello. Quindi la gente va la per comprare, ma magari ha anche problemi diversi e gli diamo la possibilità di un ascolto. Poi hanno creato anche uno spazio di socialità, in cui fanno piccoli lavoretti con alcune donne … solo che sono molto diversi. Hanno aperto anche a Pisa, a Treviso, ce ne sono tanti in Italia, ma sono molto diversi sia come modalità di accesso che come ricerca delle risorse.
Io credo che sia una cosa buona, anzi a Reggio sono almeno tre anni se non quattro che ci provo. La Provincia di Reggio, quando era ancora in anni d’oro, aveva messo un po’ assieme associazioni o altro che facevano già un lavoro di recupero alimentare o proprio distribuzione. La mia idea era di proporre l’emporio come concezione, che poi potevamo tradurre secondo le nostre modalità. Secondo me ha di fondo una potenzialità educativa molto maggiore rispetto agli interventi che facciamo adesso: che ci sia anche un ascolto adeguato e attento, però una famiglia che va tutti i mesi al centro d’ascolto parrocchiale a prendere una borsina di alimenti, secondo me non ha molto senso. Non li attiva. Nel caso dell’emporio dai lo stimolo educativo, un segnale che devi gestirti i tuoi punti – o quello che sono – che ti dà l’assistente sociale o chi per loro. A Sassuolo, dove c’è l’idea di aprire un emporio, pensavano di fare un doppio accesso, in cui i punti sono dati sia dal Centro d’Ascolto Caritas che dai Servizi. A Modena non so come funzionerà. Però la famiglia sa di avere dei punti quindi quando va non prende il superfluo. Sicuramente ha una maggiore scelta e prende quello che gli serve, perché funziona un supermercato, invece di trovarsi magari per tre mesi consecutivi a dover prendere solo dell’olio di semi di girasole perché è quello che il banco alimentare ha dato. Lì potresti avere una varietà più grossa. E sarebbe educativo anche per mettere insieme la lettura del bisogno, perché se no Pinco Pallino fa il giro delle sette chiese a prendere tutto quello che gli danno, magari è residente e ne ha diritto quindi si va anche dai servizi sociali e prende anche dal pubblico… Non è questione di dare due volte a chi ha già avuto – c’è anche la questione di giustizia, è vero… ma è sicuramente un segnale educativo, di fare le cose insieme e di farle con un senso. Nella limitatezza di uno strumento che è anche criticato da tante parti, ma che secondo me ha una filosofia di fondo che è buona e che, soprattutto, è possibile. A Reggio è possibile. È possibile trovare l’istituzione che ti da uno stabile in comodato o a basso prezzo; è possibile trovare le associazioni di volontariato – ne abbiamo migliaia ormai – da mettere insieme perché possano gestire il servizio; è possibile perché i servizi comunque ce li abbiamo, sono attivi; la rete c’è già, che sia l’ambito privato-sociale, cooperazione, associazioni che fanno questo lavoro, che sia Caritas o parrocchie, o servizi sociali del comune, hanno già un modo di lavorare insieme che potrebbe facilitare. Si potrebbe convergere. Ripeto è uno strumento, posso avere un cacciavite di qualità e che so che dura, piuttosto che ho qualcosa a basso prezzo… Però come strumento in sé lo trovo interessante.

“Anche noi abbiamo provato a introdurre un sistema a punti nella distribuzione  a San Pellegrino con prodotti che arrivavano tutte le sere, perché ci sembrava restituisse alle famiglie un po’ di potere d’acquisto. Loro con questo punteggio possono scegliere le quantità e i prodotti di cui hanno bisogno. Se hanno bisogno di solo pane o frutta, possono scegliere di prendere solo quello. Abbiamo notato che, rispetto alla modalità iniziale che era più dialogata tra il volontario e il famigliare, in cui il volontario decideva la quantità – e c’è un po’ una giustizia soggettiva – ora prendono molto meno. Sicuramente perché hanno paura di spendere i punti, ma anche perché in effetti prendono il necessario per il momento sapendo che i punti li possono spendere in un altro momento magari di crisi in cui di sarà più bisogno. Il tutto in un’ottica di restituzione, nel senso che fanno attività per la parrocchia in modo da rendersi utili.”

È una cosa abbastanza nuova questa.
Io sono rimasto abbastanza deluso di come le istituzioni nella provincia di Reggio hanno usato male tutto questo periodo di tanta gente che aveva potenzialità di tempo e lavoro da mettere in campo. Almeno è la mia visione, che sarà limitata, ma ho visto davvero poco sfruttamento positivo di gente a casa, lavori socialmente utili, chiamiamolo come vogliamo… però sicuramente le persone se le lasci a casa con una cassa integrazione e con una prospettiva di un anno o più di essere a lavorare la metà del tempo rispetto a quello che era… prova a proporgli qualcosa a beneficio della comunità!

“Abbiamo in contrato alcuni cassaintegrati delle acciaierie di Rubiera che, a parte l’incontro difficile per la grossa sofferenza, ci dicevano: «Se lo Stato ci dicesse “vi diamo 600€ e i restanti 200€ ve li diamo se tu vai una mattina a mettere a posto i giardini pubblici del comune”, non andremmo a letto la sera sempre con l’angoscia di non aver costruito niente.» Adesso vedono le loro giornate che vanno avanti sempre allo stesso modo, in quel caso avrebbero la soddisfazione magari di dire alla mattina quando si svegliano “quell’aiuola l’ho messa a posto io!” Effettivamente ci sono i sindacati che potrebbero alzare barricate e sappiamo già cosa direbbero sul tema del lavoro socialmente utile. Però in effetti è un punto sul quale anche il gruppo lavoro farà delle proposte all’amministrazione.”

Eh si. Abbiamo già perso un po’ di tempo. È sempre buono in generale , speriamo che la crisi passi e che la gente torni a lavorare, però in generale il fare qualcosa per qualcuno e per avere qualcosa in cambio è sicuramente una mentalità da acquisire maggiormente. La bassissima soglia, dalla tossicodipendenza, all’abuso di alcol, alle malattie psichiatriche, gli sbandati che hanno molto problemi e poche risorse, anche loro – addirittura i senza fissa dimora: a Bologna, con piazza grande, dovrebbe essere partito il progetto housing first che è un modello di sfida, danno una casa a quelli che vivono per strada magari da 10-15 anni. Perché fargli fare la comunità prima, vedere fino a dove resiste li trascina in un assistenzialismo che non li mette mai in gioco. Così invece, con questo impatto, gli si chiede un impegno, di uscire da un modo così rilassato di spendere la propria vita, di imegnarsi per qualcosa. Non so se avete presente i giornali di strada: funzionano un po’ così, il barbone lo prende magari a un euro e lo può rivendere al prezzo che vuole; alla fine della giornata potrebbe aver decuplicato il valore che aveva speso. Però ti dà valore, dignità, ti da lo scatto di darti da fare.
Poi ci sono tante questioni che soprattutto a Reggio non sono mai state prese in mano seriamente. Esempio concreto: l’aspetto del mangiare. Storicamente a Reggio c’è sempre stata quella del Vescovo, poi la Caritas ha coperto i giorni in cui c’era quella del Vescovo era chiusa, poi i cappuccini hanno iniziato a fare la sera. Quindi chiunque viene a Reggio ha il mangiare garantito 365 giorni all’anno addirittura due volte al giorno, e senza che il comune ci metta più di tanto – perché comunque noi riceviamo un contributo non dico irrisorio ma comunque scarso. Sono 5 o 6 anni che è sempre uguale e ce lo dividiamo equamente tra le tre mense, anche se facciamo cose diverse, come pattuito da bravi fratelli e cristiani. È stato aumentato, prima era inferiore. È un riconoscimento di quello che si fa e fanno naturalmente comodo, ma al di la del soldo, secondo me la preoccupazione di arrivare ad avere, non dico un luogo, però almeno a porsi la domanda se quelle 300-350 persone quando è aperta la mensa del Vescovo, 200 o un po’ meno quando è aperta quella Caritas, che mangiano hanno davvero bisogno di mangiare? Vendono magari per sfruttare un’occasione? Vengono davvero quelli che avrebbero bisogno?

“Non c’è una registrazione?”

Purtroppo noi si, la mensa del vescovo no. Anche qui, noi come Chiesa non abbiamo niente da insegnare a nessuno. Siamo molto parcellizzati e con criteri molto diversi. Noi abbiamo sempre spinto, dal 2003 quando ci siamo trasferiti da via del Carbone a via Adua, abbiamo messo su la tessera per entrare in mensa, che naturalmente non è uno strumento di controllo finalizzato a decidere chi sta fuori e chi sta dentro, ma un percorso che richiedeva un impegno maggiore alle persone, di mettersi in gioco, e anche un collegamento per creare poi un percorso che vada al di la del mangiare. Ma la mensa del Vescovo non ne ha mai voluto sapere. Funziona, ma è un problema enorme gestirlo, sia per la diversità dei criteri, che per l’alternanza delle aperture. Per esempio nei 100 giorni estivi la mensa del vescovo chiude e noi restiamo sempre aperti. Quando chiude la mensa in centro naturalmente arrivano quelli che andavano là senza tessera e da noi non ce l’hanno e questo ha un impatto, anche di lavoro per il centro d’ascolto, enorme.

“Quindi non sono, per esempio, quelli che avevano la tessera l’anno prima che tornano? Come funziona?”

Sono tessere a tempo, noi non diamo tessere perpetue, anche per rivedere le persone, fare il punto, vedere a che punto sono. Poi ci sono quelli che ad honorem gli si rinnova la tessera in automatico ormai. Il percorso però vuole essere quello. Tuttavia quando ti trovi con dall’altra parte un accesso scriteriato, si fa fatica. L’anno scorso ci abbiamo dato un giro di vite, soprattutto per il fatto che la gestione della mensa in sé – l’accesso, la preparazione, il servire il pasto – sono fatti da volontari. Un volontario magari che viene una volta all’anno di sicuro non ha voglia di stare a litigare, anche se non hanno la tessera il mangiare c’è, vieni dentro e amen. Giustamente il lavoro sporco l’ha fatto il centro d’ascolto: abbiamo fatto straordinari per gli orari di apertura e come cani da guardia. Però nel periodo estivo l’anno scorso abbiamo fatto un lavoro importante che da i suoi frutti anche quest’anno, cha abbiamo avuto meno problemi. Anche gli utenti stessi ci hanno dato dei riscontri positivi, perché vedono che il controllo maggiore (anche se non è proprio un controllo) giova a tutti: c’è più tranquillità, ci sono meno approfittatori, meno delinquenti – perché comunque ci sono anche quelli.

“Per quanto riguarda le famiglie invece come funziona? Non so come sia dal Vescovo, ma immagino che avendo l’accesso libero non abbiamo problemi ad andare, mentre alla mensa della Caritas si è scelto di non fare entrare famiglie e soprattutto minori. Per queste fasce il Comune fa qualcosa in più? Come funziona?”

Dipende dai casi. Se sono in carico ai Servizi ci sono buoni pasto e buoni spesa che possono spendere. Se sono un po’ più di nuova povertà o di povertà marginale e cronica noi facciamo ad esempio che viene il capofamiglia, prende i pasti da asporto e va a casa a mangiarli, se hanno una casa. Questo appunto perché l’ambiente in sé della mensa non ci sembrava adatto a una famiglia con bambini. Sicuramente questo è un problema che in parte viene risolto dai pacchi o le borsine alimentari: se è una famiglia che ha una casa e il gas, è molto meglio che si prendano la pasta, il sugo e l’olio da una parte e poi si faccia da mangiare a casa. Però il problema del cibo e del mangiare in una città come Reggio non può essere risolto con un “tanto c’è la mensa della Caritas o del Vescovo.” Per assurdo (nel senso che non succederà mai, credo), noi potremmo chiudere domani, perché nessuno ce lo impone, se non il Vangelo. Sarebbe sicuramente un problema. Abbiamo fatto dei passi, ultimamente ci siamo visti con le altre mense e con l’assessore Sassi per fare un ragionamento un po’ diverso, sia sull’opportunità di mantenere la sera, di dare i pasti in modo diverso. Un po’ di discussione pour parler. Però secondo me mettendo insieme il discorso emporio o di distribuzione alimenti, mettiamoci anche un governo relativo (parliamo del Remida Food a livello comunale, come progetto di recupero alimentare di eccedenze, di fresco, eccetera). C’è qualcosa di strutturato e anche ben speso dal punto di vista mediatico da parte del Comune, però ci potrebbe stare qualcosa in più: il recupero delle eccedenze da una parte e la messa a disposizione di chi davvero ne ha bisogno. Qui, un’altra volta, il lavoro del pubblico non è tanto di fare qualcosa lui, ma la governance, il far fare, il mettere in rete, l’agevolare. In questo c’è molto da fare. Abbiamo ancora una concezione molto statalista dei ruoli. In modo anche proprio dialogico e dialettico, magari mettendo insieme idee diverse, però non possiamo neanche dirci che va bene così. Ci sono potenzialità grosse ma c’è anche una gelosia di quello che fa ognuno che è incredibile. È vero che non si può mettere insieme tutto perché poi tutti vadano a dare o a prendere, sarebbe ingestibile, ci vogliono diversi punti. Però neanche pestarsi i piedi per andare a prendere un chilo di pasta alla barilla o essere gelosi di chi viene a prendere, perché succede. Per l’ultimo bando della Fondazione Manodori, che richiedeva la progettualità da parte di sei associazioni o cooperative, per il discorso della rete, è stato fatto un progetto sul recupero delle eccedenze di cibo in cui si sono messi insieme quelli che già lo facevano (noi no, perché non siamo ne associazione ne cooperativa, quindi non potevamo essere parte, siamo solo sostenitori). Però si fa una fatica! Sono sei associazioni e trovare l’obiettivo a valore aggiunto del fare qualcosa di più perché si è insieme.. no, ognuno cerca di portare a casa quanto può per continuare se stesso. Qui credo serva il discorso del coordinamento, del governo, da trasmettere magari al cittadino l’idea che può fare qualcosa in più. Son cose lunghe.

Un altro problema importante: negli ultimi anni con l’esperienza dell’accoglienza invernale abbiamo da una parte lavorato molto bene con le istituzioni, con il pubblico e il privato sociale, d’altra parte sono usciti problemi un po’ nuovi che magari con maggiore attenzione si possono gestire in maniera diversa. Vengono a galla sicuramente un aumento di persone senza fissa dimora o comunque con pochissime risorse personali e problemi molto gravi, che vanno non solo nel sociale ma anche nel sanitario, perché la tossicodipendenza, l’alcol, la psicatria sono problemi sanitari oltre che sociali. D’inverno questi problemi vengono maggiormente in vista, perché il freddo spinge a uscire allo scoperto. Però è un problema, secondo me, un po’ in aumento. Non so anche qui come poter fare per intercettare maggiormente… gli sportelli di prima linea sono l’Unità di Strada, la Caritas o la mensa, l’ex villetta svizzera… questi luoghi un po’ di frontiera. Che però vedo un po’ limitati (compresi noi) nella ricerca di una risposta per far tacere, per dar da mangiare, per evitare crisi di astinenza… ma con una strategia piuttosto scarsa per il futuro, si lavora molto sull’emergenza. Secondo me quello che abbiamo fatto con il progetto invernale è stato un percorso discretamente positivo, perché ha messo insieme il Comune con gestioni diverse del privato, perché la filosofia che ci sta sotto nel tempo è diventata non solo di assistenza ma, se fosse anche solo l’1 o il 2%, si ha un’attenzione maggiore sulla progettualità. Passato il 31 marzo, che è in genere la scadenza dell’accoglienza invernale, alcune persone hanno continuato e stanno continuando ad essere seguite, hanno trovato un’autonomia, magari un piccolo lavoro, e questo è possibile se si sta insieme. Se si perdono i pezzi diventa molto più difficile.

“Ma perché questa accoglienza è solo invernale? Cosa le impedisce di essere prolungata anche per l’estate?”

Intanto il freddo. Convenzionalmente si era preso dicembre-marzo come i mesi più freddi dell’anno, in modo limitato. Anche stasera se dormi fuori c’è freddo, è chiaro. Quest’anno c’è stata una polemica grossa rispetto alla chiusura, con l’Associazione Partecipazione che ha detto e fatto tante cose. Io sono convinto che nella straordinarietà vanno trovate risposte straordinarie. Se c’è freddo si aprono maggiori porte e si da su il riscaldamento. Altrimenti bisogna valutare, se no si rischia di correre sempre dietro al bisogno e magari di capire meno. Riaprire vuol dire poi che viene anche quello che non sarebbe venuto. Ci siamo trovati in regione, perché a partire da questa esperienza abbiamo fatto un percorso con le province confinanti, prima con Modena e Parma, poi ci siamo allungati fino a Piacenza e Rimini, un confronto con coloro che fanno accoglienza in inverno con persone di bassa soglia e viene fuori un po’ questa cosa: se apri hai una domanda, se non lo fai vanno altrove. È chiaro che è un’arma a doppio taglio: è giusto dare una risposta, è giusto che il servizio che dai faccia emergere un bisogno, però io sarei più sull’attenzione al governo della risposta, proprio. Il dire “diamo casa a chi non ce l’ha” è uno slogan che idealmente condivido molto, ma sotto ci stanno tante cose. Prima fra tutte può essere che magari la persona non la vuole, secondo che non la sa gestire e c’è bisogno di accompagnarlo a capire come si vive. Però, anche questo – oltre all’aspetto del cibo – mi sembra una carenza del pubblico. Ripeto: gli ultimi anni abbiamo fatto dei passi grossi insieme, però il fatto che non ci sia una struttura – o più strutture se vogliamo fare numeri più piccoli – che possano dare una risposta nella emergenza cogente… Ultimamente gli assistenti sociali telefonano e dicono “non sappiamo dove metterlo”: piano. Se ne apri una da 20 posti quest’altro anno ne hai bisogno di una da 20 posti. Però non si può neanche dire che il comune di Reggio Emilia nelle emergenze ha la casa albergo, che è gestita dalla Dimora di Abramo, che è un servizio pubblico, però è limitato. Non è una mancanza ma una carenza, perché chiede di evolvere le idee, i pensieri e le risposte. Poi incontrando tante persone, ed essendo l’esperienze invernale straordinaria, si riesce a leggere meglio il cambiamento delle povertà e delle persone.
Abbiamo visto per esempio che l’aspetto femminile negli ultimi due anni è stato più importante: molte più donne, di solito giovani, che vivacchiano – quindi tossicodipendenze, convivenze con qualcuno, sfruttamento o parasfruttamento sessuale in cambio di qualcosa, poi si ritrovano malate, incinte, vengono lasciate…  Insomma, c’è tutta una serie di complicazioni sull’aspetto femminile che è importante e forse qui siamo un po’ più carenti. C’è qualcuno come la Casa delle Donne, che è di nicchia, nel senso che è per donne che hanno subito violenza, o come la cooperativa Madre Teresa nata apposta per accogliere donne in difficoltà con bambini. Però su tante situazioni che sono un po’ al limite, cioè non sono violentate, non sono incinta o sole, ormai cominciano a crescere i casi.

“Secondo te dovuto a cosa?”

Sicuramente alle fratture famigliari. Che poi qui ci mettiamo quello che vogliamo, perché a volte anche la perdita del lavoro diventa causa di problemi e separazioni. Però c’è sicuramente anche un modo, un andazzo di legami meno forti: finchè si sta bene, finchè c’è convenienza si sta insieme, poi magari… Le donne che rimangono sole con i figli hanno una situazione più grave, perché devono mantenere anche loro; mentre magari le donne sole corrono più il rischio di finire in giri di emarginazione.

Il luogo stazione ad esempio è un punto di domanda molto grosso che viene fuori come attenzione anche dall’esperienza dell’accoglienza invernale. La stazione è sicuramente un luogo di ritrovo, di riparo, di rifugio, di scambio… L’amministrazione comunale ci ha fatto tanto, pensiamo all’attenzione sul quartiere di via Turri. Di solito in inverno qualche giro di sera e di notte si fa. Trovi poche facce che stanno lì in modo continuativo e molti che vedi una volta e poi non li vedi più. Quindi magari gente di passaggio in cerca di fortuna. È vero poi che Reggio avrà anche 170mila abitanti, ma non è Milano, non è Bologna, non è Roma. Chiaro che dobbiamo presidiare questi luoghi e queste modalità. Non possiamo pretendere che basti chiudere la sala d’attesa negli orari notturni, ma dobbiamo vigilare. Tanti servizi credo che debbano essere attenti. Non dico che siamo a posto, ma tante cose sono state fatte, a partire dall’unità di strada e dalle sensibilità di certi volontari.

“Per quanto riguarda i volontari, il numero è calato, aumentato, ci sono attività formative o percorsi per volontari? Perché è un discorso secondo me è un aspetto molto delicato”

È un discorso un po’ particolare, a Reggio, come dicevo prima, ci sono centinaia di associazioni di volontariato costituite su tutti i settori, dai cani ai gatti, ai fotografi, di tutto. E ce ne sono tante che sono diventate da associazioni di volontariato ad associazioni di promozione sociale, magari si sono messe in convenzione per qualche servizio, sono diventate cooperative, addirittura, e quindi mini imprese, soprattutto sui lavori sociali. Questo è un aspetto positivo del nostro territorio che va coltivato senza perdere di vista la peculiarità del volontariato che è la gratuità. Qui non do un giudizio perché non ne ho la capacità, però vedo tante strutture, soprattutto forse al sud, tante esperienze diverse, c’è tutta una fascia di volontariato che vive non per la ragione di fare qualcosa per gli altri ma perché ha qualcosa da prendere. Su questo monsignor Nervo, che è morto pochi mesi fa e che ha fondato Caritas Italiana, è sempre stato un cultore dell’approfondimento della filosofia del volontariato, lui ha sempre sostenuto che se togliamo la gratuità la forza del volontariato viene meno. Questo è l’aspetto positivo del territorio. Poi sempre a livello storico noi come Caritas non abbiamo mai avuto un’associazione di volontariato costituita, però di volontari ne abbiamo tanti. Non vengono perché associati ma perché bisogna fare qualcosa. La mensa ad esempio è una struttura che funziona solo col volontariato e in un anno, se vogliamo fare un calcolo, tra le duemila e i duemilacinquecento persone ci passano. Io non li ritengo volontari come quelli della croce rossa che ogni mattina vanno, ma fanno sicuramente un’azione a favore di altri. E su questo non ho visto un gran calo. Per la formazione, sicuramente si fa più fatica laddove ci sono dei numeri grossi. Per dire: i nostri volontari della mensa non riusciamo a seguirli dal punto formativo perché sono tanti, troppi, sparsi, magari anche troppo saltuari. E quindi la positività di una piccola associazione è di riuscire a seguirli maggiormente. Vedo un grosso problema di discernimento. Cioè, chi fa il volontario non deve essere improvvisato, soprattutto chi lo fa in certi settori. Non può essere chiunque. Lo vediamo con i centri d’ascolto parrocchiali dove insistiamo un sacco, soprattutto con i parroci, perché secondo me dovrebbero essere loro le figure di discernimento e anche di autorità quando bisogna dire “così non va bene.” Non possono accontentarsi di qualcuno che dica che vuole andare al centro d’ascolto, se la sente, o lo fa volentieri.  Qui la capacità di accompagnare le associazioni di volontariato e l’ente pubblico. Si deve coltivare una proposta viva, che quindi ha anche bisogno di numeri, di persone, però poi riuscire a selezionare. L’opportunità va data a tutti, per tutti ci può essere qualcosa da cui cominciare, con cui capire. Per alcuni è meglio che stiano a casa, detto brutalmente, a meno che non ci si impegni a seguirli pedissequamente in tutto il percorso (è un impegno molto faticoso). Il scv che in caritas abbiamo da sempre, è uno spaccato interessante in questo senso. È passato con il fatto di avere un contributo di 433 euro al mese ad essere un’ opportunità per un giovane che non trova lavoro da nessuna parte e a volte è visto come ultima spiaggia. Quindi cosa vuol dire servizio civile volontario? È davvero volontario? D’altra parte fa venire fuori cose interessanti, povertà che non chiameresti tali. Un giovane che sta chiuso in casa dopo il diploma, perché non trova lavoro, perché è leggermente depresso, i suoi sono assillanti o non ha relazioni con gli amici non lo chiameresti povero; ma quando arriva a fare domanda e vedi che è un disagiato nella società, non è capace di far niente, non ha spinta, non ha reti relazionali si dice “proviamo”, diamogli un’opportunità. E lì saltano fuori i problemi.. c’è un aspetto che si incrocia tra volontariato che è far fare qualcosa per uscire da situazioni difficili e volontariato che ha bisogno di professionalità e competenza. Far stare insieme questa domanda e offerta non è facile, la formazione è fondamentale, solo che è veramente dispendioso. E anche tutto l’aspetto drammatico di queste persone, la cosa peggiore è che sono giovani , quindi hanno davanti vita e potenzialità e dinamiche fisiche  che trovi abbandonate, dal lavoro che non si trova, dagli amicii che li hanno pian piano isolati.. e il volontariato se viene messo anche come forma di riscatto, di impegno rispetto a servizi che puoi ottenere… c’è poi il rischio del do ut des, quindi si rischia di perdere la gratuità. Bisogna ripensare in modo intelligente la questione del mettersi a servizio della comunità, dove comunque hai anche la possibilità di fruire di qualcosa.

D: senza correre il rischio di “costringere” al volontariato, che poi non è più volontariato..

Quello che nei paesi comunisti facevano: la giornata di volontariato dopo 6 giorni di lavoro a 12-13 ore al giorno. Davano poi anche una certa stabilità…se pensi all’albania, finito questo schema si son tutti persi.

D: in alcuni paesi al nord le persone dopo aver finito di lavorare si dedicano alla cura delle cose comuni, aggiustano le rotonde… e lo fanno con gratuità!

Siamo troppo dall’altra parte in italia

Prima parlavi dell’indebitamento delle famiglie: secondo te i comuni dovrebbero fare qualcosa sul tema un po’ marginale delle nuove dipendenze, come il gioco? Questi problemi esistono? Si può fare sensibilizzazione? Poi l’altra cosa sono le risorse: leggendo i dati si trova spesso che in italia c’è la tendenza ad investire poco in servizi reali

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